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Libri letti nel 2022

L’elenco dei libri letti nel 2022, con cinque segnalazioni

L’anno scorso, alla fine di novembre, avevo letto soltanto 20 libri. Ho fatto uno sprint, organizzando un calendario di lettura, e sono arrivato a 30 senza troppo sforzo. (Mi piace partecipare alla sfida di Goodreads sui libri letti.)

Quest’anno, invece, a ottobre avevo già letto 25 libri. Avevo due mesi per leggerne più di cinque, ma me la sono presa molto comoda. È successo esattamente il contrario dell’anno scorso. L’obiettivo/sfida dei 30 libri mi ha fatto rallentare.

Quest’anno non ho ascoltato audiolibri (il mio tempo dedicato all’audio è solo per i podcast, di tutti i tipi). Ho fatto un paio di riletture, una parte de La vita segreta di Andrew O’Hagan e una parte di Accanto alla macchina di Ellen Ullman (quanto mi piacerebbe leggere la traduzione di qualche altro suo libro). Siccome prendo la sfida di Goodreads molto seriamente (come dicevo in un altro resoconto di qualche anno fa), entrambi non sono nell’elenco dei libri letti, così come non sono presenti tutti quelli che ho lasciato a metà.

Come ogni anno, segnalo cinque libri, tra quelli letti, senza un ordine preciso.

A questo link troverete l’elenco completo con tutte le copertine (un’altra cosa che mi piace fare è aggiornare questa pagina e vedere tutte quelle copertine).


Il mare in cui nuotiamo
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Il mare in cui nuotiamo

Di Frank Rose avevo letto, consigliato e inserito in lezioni e articoli Immersi nelle storie del 2017 (che ancora consiglio). Appena è uscito Il mare in cui nuotiamo l’ho acquistato subito. In Immersi nelle storie si parlava di come la tecnologia digitale ha modificato il nostro modo di raccontare le storie e il modo in cui reagiamo a esse.

Questo nuovo libro è legato all’esperienza di Rose presso la Columbia University, dove è entrato a far parte del Digital Storytelling Lab. Si parla ancora di narrazioni, spaziando dai film alla televisione, alle performance dal vivo, al giornalismo, ai libri.

L’eccesso di informazioni ha avuto anche un altro effetto, sebbene meno evidente: ha alimentato il trionfo del design. Richard Lanham, professore emerito di retorica e inglese presso l’Università della California a Los Angeles, nel suo affascinante libro The Economics of Attention sottolinea che, quando l’attenzione diventa una risorsa scarsa, «si verificano alcuni cambiamenti fondamentali. I dispositivi che regolano l’attenzione sono improntati allo stile, e lo stile si basa totalmente sulla capacità di attirare l’attenzione. Se oggi l’attenzione è il fulcro dell’economia, vale esattamente lo stesso per lo stile. Si sposta dalla periferia al centro. Stile e sostanza si scambiano di posto».

Il fascino dello stile è assolutamente trasversale e riguarda siti web, videogiochi, esperienze di viaggio, campagne pubblicitarie, opere d’arte eccetera, insomma praticamente qualunque cosa. E qualunque cosa dotata di stile può diventare quella che Lanham definisce «struttura dell’attenzione»: un oggetto scintillante che non esiste di per sé o per assolvere a uno scopo più nobile, ma semplicemente per attirare la nostra attenzione.

«Qualsiasi cosa la mente umana reputi interessante – film, canzoni, persone, tutto quanto – tende ad avere grossomodo la stessa percentuale di elementi di familiarità e novità» spiega Bergquist. «Il cervello umano è ottimizzato per tutto ciò che percepisce come nuovo. Ma un eccesso di novità risulta schiacciante, e se è troppo poca si rischia la noia. Ecco perché Philip Glass non vende sei milioni di album. È un concetto che vale per tutto. La gente clicca molti più video dedicati alla teoria terrapiattista perché, se vivi in una società che abbraccia l’idea che la Terra sia rotonda, quella di una Terra piatta risulta nuova».


Imperfezione
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Imperfezione

L’idea diffusa è che gli organismi viventi siano una macchina perfetta, evoluta in milioni di anni. Telmo Pievani, biologo specializzato proprio nell’evoluzione, ci spiega che in realtà non è così. Noi, come tutti gli altri esseri viventi, siamo il risultato di una serie di imperfezioni.

La più geniale di queste imperfezioni è proprio il DNA.

Di duplicazione in duplicazione, il DNA si trasmette fedelmente, ma non senza errori casuali di copiatura. La duplicazione è sempre imperfetta: minime variazioni, deviazioni, ricombinazioni. Il DNA possiede questa ambivalenza cruciale: è stabile, altrimenti non ci sarebbe trasmissione dell’informazione genetica, e al contempo variabile, altrimenti non ci sarebbe evoluzione. L’errore nell’evoluzione è generativo, è la linfa del cambiamento. Le mutazioni sono cancellature, sostituzioni o aggiunte di piccole letterine, le quattro basi azotate, che compongono appunto il DNA.

Pievani cita spesso Darwin, da cui riprende i concetti di base per definire le sei leggi dell’imperfezione. La terza, quella sui vincoli, recita:

La selezione naturale non è un agente che perfeziona e ottimizza gli organismi in ogni loro parte. Non può farlo, perché lavora in circostanze contingenti, quindi è sempre relativa a un contesto cangiante, e soprattutto è condizionata dai vincoli storici, fisici, strutturali e di sviluppo.

La terza legge dell’imperfezione di Pievani riprende l’introduzione del sesto capitolo de L’origine della specie:

La selezione naturale tende solamente a rendere ciascun essere vivente altrettanto perfetto, o un po’ più perfetto, degli altri abitanti dello stesso paese con cui entra in concorrenza. E vediamo che questo è il livello di perfezione che si raggiunge in natura. […] La selezione naturale non produrrà la perfezione assoluta, né ritroviamo mai, per quanto possiamo giudicare, questo alto livello in natura.

Più leggevo il libro di Pievani, più pensavo che queste sei leggi sarebbero perfette come metafora per la progettazione di prodotti e servizi digitali:

I processi selettivi non partono da zero, ovviamente. Non sarebbe economico. Se si può, si utilizza il materiale già esistente, perché è meglio un piccolo e imperfetto vantaggio immediato di una fumosa imperfezione futura.


Bob Noorda. Una vita nel segno della grafica
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Bob Noorda. Una vita nel segno della grafica

Bob Noorda è stato uno dei più importanti grafici italiani. Con Vignelli ha fondato Unimark e ha realizzato numerosi marchi per importanti aziende italiane. In questo libro-intervista, realizzato da Francesco Dondina, ripercorre la sua carriera, raccontando la genesi di alcuni dei suoi lavori.

Parlando di identità visiva, Noorda condivide le sue idee a riguardo e sottolinea la necessità di coordinare e utilizzare tutti i codici di comunicazione (colore, tipografia, font, iconografia), tenendo bene a mente il concetto di “continuità”:

Continuità: ecco, questo è un termine molto vicino al concetto di corporate identity. A tal proposito, il manuale di corporate identity assume un ruolo fondamentale, perché regola in modo preciso e indiscutibile come tutti gli elementi del progetto di immagine debbono essere utilizzati. È importante che queste norme vengono rispettate, se si vuole garantire la continuità del tempo di progetto.

Spesso, Noorda ricorda la misura esatta dell’allineamento di un marchio, lo spessore di una linea o la grandezza di un carattere tipografico. Parlando del progetto per il Touring Club del 1979, racconta come ha realizzato i pittogrammi che avrebbero accompagnato il testo. Per evitare uno stacco visivo e rendere tutto più armonico, ha ideato i pittogrammi basandosi sullo spessore dell’Univers corpo 7. Dondina sottolinea il notevole lavoro di precisione e Noorda aggiunge:

Un bravo designer è quello che offre un buon servizio attraverso la comunicazione, non quello che stupisce a tutti costi, né quello che fa vedere quanto è bravo. Un designer e bravo se sa risolvere un problema, se offre un buon servizio, se propone una soluzione utile. La prima cosa da fare, dunque, è individuare il problema da risolvere. Nel caso dell’Annuario del Touring, il problema era evitare che la complessità delle informazioni risultasse eccessivamente prolissa, quindi ho pensato di utilizzare, in alternativa, alle parole, delle figure iconiche come i pittogrammi […] Il problema successivo era evitare che i pittogrammi risultassero troppo invadenti rispetto al testo […] Solo una volta capito il problema da risolvere si può procedere a fare delle prove, fino ad arrivare alla soluzione desiderata.


Filosofia del Graphic Design
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Filosofia del Graphic Design

In questo suo nuovo libro, Falcinelli raccoglie una serie di articoli sul graphic design, scritti da graphic designer. Anche se non tutti si sarebbero definiti graphic designer:

William Morris si sarebbe definito «artista»; Marinetti, Depero e il giovane Munari si dichiaravano semplicemente «futuristi»; Otto Neurath era un «filosofo»; altri, come Germano Facetti o Steven Heller, sono stati «art director»; e Giovanni Lussu ha ribadito più volte di reputarsi prima di tutto un artigiano e non un designer.

La raccolta parte con un testo del 1895 di William Morris e finisce con uno di Ellen Lupton del 1998. I testi introducono idee, approcci, pensieri (su pubblicità, riviste, mestiere di grafico) che poi a un certo punto sono diventati scontati, come se fossero sempre esistiti, per dirla con le parole di Falcinelli:

I testi non sono saggi tecnici o critici, ma poetiche, proponimenti, dichiarazioni d’intenti, proclami e pure, perché no, di chiamata alle armi.

Riporto anche un estratto dal testo di Ladislav Sutnar del 1961, Visual design in azione.

A seconda delle esigenze imposte da un problema specifico, i vari aspetti del design si possono ridurre a tre principi fondamentali interagenti: funzione, flusso e forma. Li possiamo definire nel modo seguente: la funzione e la qualità che soddisfa le esigenze funzionali fornendo la risposta a uno scopo o a un’intenzione specifici; il flusso è la qualità che soddisfa le esigenze logiche fornendo la sequenza degli elementi in una relazione spazio-temporale; la forma è la qualità che soddisfa le esigenze estetiche per quanto riguarda gli elementi basilari costituiti da dimensioni, spazi vuoti, colore, linea e foggia.

Ispirato dal libro ho poi dedicato il numero #062 di Dispenser agli articoli sul web design, scritti da web designer.


Piante che cambiano la mente
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Piante che cambiano la mente

Il libro di Michael Pollan è composto da tre saggi su tre piante che alterano la nostra coscienza: oppio, caffeina e mescalina. La caffeina è stato l’argomento che mi ha attratto fin dalle prime anticipazioni del libro. (Internazionale aveva pubblicato una traduzione di questo articolo uscito sul Guardian).

La piante che producano la caffeina e la teina (Coffea e Camellia sinensis) si trovavano in luoghi remoti dell’Africa orientale e dell’Arabia meridionale, ma nel momento in cui è stata introdotta nel cervello umano sono diventate due delle piante più diffuse del pianeta.

Agli inizio degli anni ’90 è stato scoperto che queste piante producono una sostanza come la caffeina per attrarre gli insetti. Drogando l’impollinatore con una bassa dose di caffeina, lui si ricorderà e tornerà alla stessa pianta, preferendola alle altre.

Se avete già letto qualche altro libro di Pollan, sapete già cosa aspettarvi. Si passa da racconti personali – la sua astinenza dal caffè – a riflessioni e ricerche storiche, passando per l’influenza e l’impatto della caffeina sulla società.

Ma il contributo più importante che la caffeina abbia dato al lavoro moderno – e, di conseguenza, all’ascesa del capitalismo – è stato quello di liberarci dai ritmi fissi del sole, un orologio astronomico che regola anche quello del nostro corpo. Prima della caffeina, l’idea di un turno serale, per non parlare di un turno di notte, era di per sé inconcepibile, il corpo umano semplicemente non lo avrebbe consentito. Ma la capacità della caffeina di mantenerci svegli e vigili, di arginare la naturale marea della spossatezza, ci ha liberati dai ritmi circadiani della biologia e così, insieme all’avvento della luce artificiale, ha aperto le frontiere della notte alle possibilità lavorative.

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L’elenco completo