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Libri letti nel 2021
L’elenco dei libri letti nel 2021, con cinque segnalazioni
Ogni anno mi pongo l’obiettivo di leggere 30 libri. Come segnalavo già l’anno scorso, l’obiettivo è solo uno stimolo a finire libri che spesso abbandono, non sempre perché non mi piacciono o poco interessanti, ma perché distratto da altro. Quest’anno sono arrivato a fine novembre con meno di 20 libri finiti. Ho deciso quindi di fare uno sprint. Niente di complicato, ho semplicemente organizzato un calendario e fatto una lista di libri da leggere (che poi ho rispettato in parte) mettendo un cima i libri lasciati a metà. A volte basta davvero una lista di cose da fare.
Tra le letture di quest’anno ci sono tre riletture. Una è Figure di Falcinelli, che consulto anche in ordine sparso all’occorrenza. Le altre due sono audioletture. Ho ascoltato Sette brevi lezioni di fisica (che avevo già letto qualche anno fa) dalla voce dell’autore, Carlo Rovelli. Ho per metà ascoltato e per metà letto di nuovo Dove sono tutti quanti di Amedeo Balbi.
La lista completa la trovate alla fine di questo post e a questa pagina. [Intermezzo tecnico] Pagina che prende vita da una tabella su Airtable.
Sotto ci sono cinque libri che ho consigliato spesso quest’anno, quando mi sono trovato a parlare di libri.
Teoria del type design
Teoria del type design è un libro di Gerard Unger del 2018, tradotto in Italia da Ronzani Editore nel 2020. Gerard Unger è stato un influente type designer olandese, morto nel 2018. Ha progettato caratteri tipografici, come Swift e Alverata, ed è stato docente presso istituzioni accademiche, come l’Accademia Gerrit Rietveld e le università di Reading e Leiden.
Negli ultimi vent’anni è cresciuto sempre di più l’interesse verso la tipografia e nei font nello specifico. Dal punto di vista didattico si è vista un considerevole aumento di corsi sul tema. Come scrive sia, Gerry Leonidas nella prefazione che Riccardo Olocco di CAST nella postfazione, questo è il primo libro che introduce in maniera significativa alla disciplina del type design. Una disciplina destinata a consolidarsi.
Il libro è suddivido in 24 brevi capitoli dove Unger parla di font, forme delle lettere e condivide riflessioni su vari temi, come la tecnologia e leggibilità. Alla fine di ogni capitolo c’è una raccolta dei font citati.
Segno un passaggio, dei tanti che meriterebbero di essere condivisi:
La tipografia è molto più che organizzare un testo o rendere leggibile l’opera di un autore: essa spesso si combina e integra con immagini, colori, spazio e con le caratteristiche fisiche di oggetti quali libri, riviste o quotidiani. La creazione di caratteri sorprendenti e attraenti accompagna da sempre la tipografia. Il disegno dei caratteri, la tipografia e la progettazione grafica sono stati a più riprese influenzate non solo dai movimenti nel campo del design e delle arti in generale ma anche dall’evoluzione sociale. […] I caratteri prendono vita con la tipografia; sono come i vestiti: quando sono appesi possono piacere, ma solo quando li si indossa è davvero possibile apprezzarli.
E due definizioni sulla tipografia. La prima, di Stanley Morison da The practice of typography (1900):
La tipografia può essere definita come l’arte di disporre correttamente il materiale da stampa con uno scopo specifico, o come l’arte di disporre le lettere, distribuire lo spazio e controllare i caratteri in modo da favorire al massimo la comprensione del testo da parte del lettore.
La seconda di Günter Gerhard Lange (1921-2008), per molti anni direttore del dipartimento di progettazione dei caratteri della fonderia tedesca Berthold:
La tipografia è la messa in scena di un messaggio su una superficie.
25 years at the Public. A love story
25 years at the Public è il racconto di una delle collaborazioni più durature di una delle più note grafiche contemporanee: la collaborazione di Paula Scher con il teatro Public.
Scher ha cominciato progettando i manifesti per l’annuale rassegna estiva dedicata a Shakespeare, Shakespeare in the Park.
Segnalo la parte in cui Scher ha avuto una “rivelazione”, progettando proprio i manifesti della rassegna. Era il 2013 e pensò che il progetto grafico di Shakespeare in the Park, ogni anno, sarebbe dovuto diventare il manuale d’identità visiva dell’intera stagione, senza redigere un vero manuale d’uso o definire un design system. Le indicazioni per il team di design interno del teatro dovevano stare in una pagina. «There is no written manual, only trial and error». Affinché una cosa del genere funzioni, sottolinea Scher, è necessario trovare i designer giusti.
They have to understand what it’s supposed to look like, Not try to make it confirmed with a specific grid, system, or formula. They follow their understanding of a graphic look and character, not a strict guideline. The process is freer and relies on the designers’ vision and talent. They send me designs, and I look at them when I can, all day long […] I may write a short crit do designer and tell them to make something smaller or bigger, or move type or image to the right, or tell them which version I like better, but after they have gotten used to the system, my response are almost always “good”, “great”, “fine” because it mostly is good, great, and fine.
Viceversa
Come l’autrice, anche io sono sempre stato attratto dalle foto di spalle. Quando ho visto Viceversa in libreria l’ho segnato subito nella lista dei libri da leggere. L’autrice, Eleonora Marangoni, racconta nella prefazione (e in un’intervista a Studio) che a un certo punto si è accorta di essersi circondata, per anni, da immagini che rappresentavano figure di schiena. Quando è successo, ha provato a mettere ordine. Da lì è nata l’idea di questo saggio, una panoramica della storia (se così si può chiamare) di questo tipo di rappresentazione.
Leggendo il libro ho scoperto che una delle prime figure di schiena è la (cosiddetta) Flora o Primavera di Stabia, ritrovata in una villa di epoca romana (Villa Arianna, vicino casa mia1), durante degli scavi della metà del 1700. Insieme a Flora, dea della primavera, sulle pareti sono dipinte altre tre divinità: Leda, Medea e Diana. Flora è l’unica rappresentata di spalle.
Non possiamo conoscere l’espressione del suo volto, eppure di lei ci sembra di sapere molte cose […] Flora sta passeggiando senza fretta, in mezzo a quel verde è perfettamente a suo agio e non ha nessuna intenzione di fermarsi.
Flora è diversa dalle sue compagne di stanza di villa Arianna, e non perché è l’unica tra loro a voltarci le spalle, ma perché è la sola essere raffigurata in un momento in cui è felice, nel senso più antico del termine, ovvero fertile, feconda, pronta a ricevere e a generare vita.
L’unicità di questa figura di spalle non sta solo nella compiutezza del soggetto, nella particolarità della prospettiva e nella grazia del gesto, ma nel suo essere un hapax, ponte simbolico ideale tra epoche disparate. Flora segna una transizione simbolica ed estetica tra civiltà molto distanti tra loro, e il trait d’union ideale tra il mondo degli antichi egizi – un mondo bidimensionale in cui tutto si svolgeva rigorosamente di profilo, lateralmente – e la pittura italiana del Trecento, epoca in cui fanno la loro comparsa le prime figure di schiena dell’arte occidentale.
I pesci non esistono
La lettura de I pesci non esistono è stata sorprendente, anche perché non sapevo bene cosa aspettarmi. È in parte una biografia, in parte un memoir, in parte un saggio scientifico.
Il racconto della biografia di David Starr Jordan si intreccia fin da subito con la vita personale dell’autrice, Lulu Miller, che spera di trovare in Jordan risposte sul come gestire al meglio la propria vita e in più in generale al come e perché si tira avanti.
David Starr Jordan è vissuto tra il 1851 e il 1931, è stato un dei più importanti ittiologi del secolo scorso – a lui si deve la scoperta di centinaia di specie di pesci, circa un quinto dei pesci noti all’epoca –, ed è stato il primo preside dell’Università di Stanford in California.
Miller è una giornalista scientifica. Aveva letto di Jordan per l’episodio del terremoto di San Francisco del 1906. Terremoto che distrusse buona parte della sua collezione ittica. Jordan non si perse d’animo, e come più volte aveva fatto nella sua vita, ricominciò da capo fin da subito. Appena arrivato nel laboratorio di Stanford si procurò ago e filo e comincio a cucire le etichette ai pesci sparsi per la stanza.
Con gli anni Jordan ha cominciato a incuriosire Miller sempre di più:
Forse, riguardo all’ostinazione, al darsi un obiettivo, all’andare avanti, aveva capito qualcosa che sarebbe tornato utile anche a me. In fondo non era del tutto sbagliato avere una fiducia smisurata in sé stessi. Possibile che proseguire sempre dritto per la propria strada, anche quando nulla garantisce che sia quella giusta, fosse il segno distintivo non del matto ma – il solo pensarlo aveva un che di peccaminoso – del vincitore? Così, un pomeriggio d’inverno in cui mi sentivo particolarmente disperata, cercai «David Starr Jordan» su Google e mi apparve la foto seppiata di un anziano bianco con due folti baffi da tricheco. Il suo sguardo era un po’ severo. Chi sei? domandai. Un monito o un modello da imitare?
Parlando di Jordan, Miller parla, e racconta, di tassonomia, eugenetica, di metodo scientifico e molto altro.
Un lavoro perfetto
Un lavoro perfetto è un romanzo della scrittrice giapponese Tsumura Kikuko. La protagonista è una donna che in ogni capitolo si ritrova a fare un lavoro diverso. Ogni volta ricomincia da capo, ogni volta si confronta con situazioni e dinamiche nuove.
Il libro ha un andamento quasi da serie tv. All’inizio di ogni capitolo appare la signora Masakado dell’ufficio di collocamento, che propone un nuovo lavoro alla protagonista. Lavori che vanno dalla videosorveglianza all’affissione di manifesti, passando per lo scrivere pubblicità per gli autobus o testi per confezioni di cracker.
«Per esempio, non ho mai svolto un lavoro all’aperto, ma sarei felice di provarci. Anzi, forse mi piacerebbe anche di più!» Penso a qualcosa tipo contare il numero di passeri appollaiati sui cavi elettrici, oppure il numero di auto rosse che passano da un certo incrocio, ma credo che se facessi questi esempi sembrerei scema. Decido di stare zitta, anche se in realtà non sto scherzando.
Vorrei un lavoro privo di sostanza, che sia al limite tra il gioco e l’impiego serio. Non un posto in cui un’elegante signora anziana che non ha niente di meglio da fare salta fuori dal nulla e dice: «Dovresti riposarti, sai?», oppure: «Contiamo su di te!» Ma soprattutto, vorrei un lavoro da poter svolgere in completa solitudine.
Sempre interessanti e acute le riflessioni della protagonista su tutto quanto è intorno a sé, le aziende per cui lavora, colleghe, colleghi, compiti da svolgere.
Immagino che il disinteresse verso dettagli tipo la grafica dei biglietti e la qualità della stampa faccia parte della loro filosofia.
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Nota personale: io sono di Gragnano e villa Arianna si trova a un paio di km da casa mia, a Castellammare di Stabia. ↩