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Libri letti nel 2023

Con cinque segnalazioni

Quest’anno ho letto 32 libri. Tutti assieme fanno circa 300 pagine in meno rispetto all’anno scorso, quando ne avevo letti 30.

Scrivo libri letti, ma in realtà intendo libri completati. Aggiungere solo i libri completati è la regola base a questo mio tracciamento di letture. Non aggiungo i libri che abbandono o che metto in pausa. (Gli abbandonati e i messi in pausa forse meriterebbero una lista a parte).

La maggior parte dei libri che leggo è sul Kindle. Il libro più lungo che ho letto quest’anno è stato Cinema Speculation di Quentin Tarantino, 464 pagine. È stato anche quello che ho letto più velocemente, a mia memoria. Peccato che il Kindle non segni il tempo dedicato alla lettura di un libro. Sarebbe un dato interessante, forse chi si occupa del Kindle legge poco. Non sapevo bene cosa aspettarmi dal libro di Tarantino. La copertina dell’edizione italiana, con una sua foto, potrebbe confondere. Il libro non parla di Tarantino o dei suoi film. L’autobiografia è minima, ce n’è un po’ all’inizio, poi è un susseguirsi di analisi (e speculazioni) su vari film del passato. (La copertina della versione originale mostra una scena di uno dei film analizzati nel libro: Getaway di Sam Peckinpah, con Steve McQueen).

Come ogni anno, segnalo cinque libri. Libri che ho consigliato di più o di cui ho parlato spesso con amici, colleghi, studenti e congiunti vari.

Ai libri non presenti sotto, aggiungo L’ingegno e le tenebre di Roberto Mercandini, che ho trovato piacevole (non so se l’aggettivo sia giusto) e Nel segno dell’anguilla, con il quale ho scoperto il mondo delle anguille, di cui conoscevo poco e niente. Si parla della loro storia naturale, delle ricerche scientifiche e dei misteri che le accompagnano da tempi remoti. Il libro è anche ricco di aneddoti storici e personali dell’autore; mi ha ricordato I pesci non esistono, che ho letto qualche anno fa.

Avrei potuto evitare qualche lettura, come Le aggravanti sentimentali (il seguito de Le attenuanti sentimentali) di Antonio Pascale o la raccolta di racconti di Veronica Raimo. Avevo aspettative più alte per Le paludi della piattaforma di Geert Lovink.

Per vedere l’elenco completo dei libri letti quest’anno, con tutte le copertine, seguite questo link.


Checklist, di Atul Gawande

Checklist
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È un libro che volevo leggere da tempo, un po’ perché sono sempre stato attratto dalle liste, di tutti i tipi. Il libro, scritto da un chirurgo, parte con l’uso delle checklist in ambito ospedaliero, per poi ampliare lo sguardo in ambiti diversi, come l’aviazione, l’edilizia e la finanza

Una caratteristica di base della vita moderna è la nostra dipendenza da sistemi – da aggregati di persone, di tecnologie o di entrambe le cose – e una delle nostre maggiori difficoltà consiste nel farli funzionare. In campo medico, per esempio, se voglio che i miei pazienti ricevano la migliore assistenza possibile, non sono solo io che devo fare bene il mio lavoro, ma è tutta una serie di componenti che deve ingranare in modo efficace.

Gawande parla della necessità di organizzare bene i team di lavoro. In situazioni di estrema complessità, per necessità, ricorriamo alla divisione di compiti e competenze, ma potrebbe non bastare:

[…] l’evidenza dei fatti indica quanto sia necessario che ciascuno di loro senta il dovere professionale non solo di eseguire i compiti di propria circoscritta competenza, ma anche di aiutare il gruppo a ottenere i migliori risultati possibili. È per questo che occorre trovare un modo per far sì che l’équipe non si lasci sfuggire niente tra le maglie della sua attenzione e che sappia reagire da vera squadra a qualsiasi difficoltà si presenti.

Nelle sue ricerche per il libro, Gawande incontra Daniel Boorman che per anni si è occupato di sviluppare checklist e comandi cabina per gli aerei della Boeing. Per essere efficaci le checklist devono essere precise, dice Boorman. Devono andare al punto ed essere facili da usare, anche in situazioni complicate. Non devono essere minuziose o troppe dettagliate, ma devono ricordare i passi complicati e più importanti. Devono essere pratiche e soprattuto non lunghe, tra le cinque e le nove voci. Secondo Boorman è importante anche capire subito se ti serve una checklist di «esecuzione e conferma» o una checklist di «lettura ed esecuzione».

Con una lista di «esecuzione e conferma» i membri del team svolgono le rispettive mansioni basandosi su memoria ed esperienza, il più delle volte ciascuno per proprio conto. Ma a quel punto si fermano. Prendono una pausa per scorrere la checklist e verificare che le cose da fare siano state fatte. Con una lista di «lettura ed esecuzione», invece, gli operatori eseguono le manovre spuntando via via le diverse voci – come si fa con le ricette.

C’è parecchia resistenza, da parte delle persone, ad accettare le checklist; le riteniamo rigide, pensiamo che ci trasformino in degli automi:

Ma quel che succede, quando la checklist è ben fatta, è esattamente l’opposto. La checklist sgombra il campo dalle stupidaggini, dalle routine su cui il cervello non dovrebbe perdere tempo (I timoni di profondità sono regolati? Il paziente ha preso gli antibiotici per tempo? I manager hanno venduto tutte le loro azioni? Ci siamo tutti su questo punto?), e ci lascia liberi di concentrarci sulle cose importanti (Dov’è che dovremmo atterrare?)

Ci sono tante altre cose che mi piacerebbe citare di questo libro, ve ne segnalo ancora solo una. L’episodio dei Van Halen1 e degli M&M’s. I Van Halen, quando erano in tour, pretendevano nel loro backstage una ciotola di M&M’s senza confetti di colore marrone, pena l’annullamento del concerto e il totale indennizzo della band. Era una clausola che facevano inserire ogni volta nei contratti con gli organizzatori dei loro concerti.

Come Roth spiegò nella sua autobiografia, Crazy from the Heat, […] «Quando arrivavo nel backstage, se nella ciotola vedevo una caramella marrone […] ci mettevamo a controllare riga per riga l’intera produzione. Stai tranquillo che sarebbe spuntato un errore tecnico… Stai tranquillo che saremmo incappati in qualche problema».

Era la loro checklist. Era il loro modo per capire se erano state lette le istruzioni e ci fosse stato la giusta attenzione ai dettagli.


Content, di Kate Eichhorn

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Il libro è una panoramica, introduttiva, su cos’è oggi un contenuto, l’industria che ci ruota attorno e come si è sviluppato negli ultimi anni.

L’era del contenuto è, in sostanza, quella del contenuto sempre e comunque. I giornali producono brevi clip video. I canali televisivi d’informazione pubblicano articoli. In maniera analoga, molte case editrici pubblicano video e contenuti correlati ai libri.

Il libro si addentra anche nella cultura delle fake news e del clickbait, una conseguenza dell’insaziabile fame dell’industria dei contenuti, che privilegia sempre più la quantità anziché la qualità.

Eichhron introduce poi il concetto di “capitale dei contenuti”, nella produzione culturale, paragonandolo al capitale culturale, sociale ed economico. Il successo non dipende più solo dall’essere riconosciuti dalle autorità culturali tradizionali. Dipende anche dalla capacità di creare contenuti che funzionano online. Contenuti che non sono necessariamente incentrati sul proprio lavoro, ma sul proprio status.

Ne consegue che nel campo di produzione culturale cosí com’è strutturato oggi, i produttori culturali devono non solo produrre letteratura o arte, ma fare anche in modo che qualcuno produca un flusso costante di contenuti su di loro e sulla loro opera.

Vale per la produzione culturale e per qualsiasi altro ambito.


L’atto creativo: un modo di essere, di Rick Rubin

L’atto creativo
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Rick Rubin è un noto produttore musicale. In un’intervista alla trasmissione televisiva 60 minutes, dice di non aver alcuna competenza tecnica, ma di essere utile agli artisti per la fiducia che ha sul proprio gusto, la capacità di prendere decisioni ed esprimere le proprie sensazioni.

«Nulla in questo libro è dato per certo», scrive Rubin nelle prime righe. Il libro è composto da circa 78 sezioni, delle brevi meditazioni. In ogni sezione propone una prospettiva sull’essere un artista, sul mettersi in dubbio, sul successo, sulle abitudini e le scelte. Enfatizza sempre più l’essere che il fare. Alcune cose vi suoneranno familiari e a tratti potrebbe sembrare un incrocio tra un libro di auto-aiuto e un oroscopo. Non pensate troppo male però, il risultato è comunque una lettura stimolante.

Non esistono regole buone o cattive. Esistono solo regole adatte alla situazione e utili all’arte, e regole che non lo sono. Se l’obiettivo è creare la più bella opera possibile, qualunque cosa possa efficacemente avvicinarci a quel traguardo sarà la regola giusta.

Parla di tutte le fasi del processo creativo. Quello iniziale, quello produttivo e quello legato alle decisioni finali, con la gestione dei compromessi.

Se a un collaboratore piace l’opzione A e un altro preferisce l’opzione B, la soluzione non sarà decidere tra A e B: si dovrà continuare a lavorare fino a quando non si troverà un’opzione C che entrambi gli artisti ritengono la migliore. Quest’ultima opzione potrebbe incorporare elementi di A, di B, di entrambe, o di nessuna. Nel momento in cui un collaboratore cede e si fa andare bene un’opzione solo per far procedere il progetto, hanno tutti da perdere. Le decisioni importanti non vanno prese in base a uno spirito di sacrificio. Vanno prese quando tutte le parti coinvolte individuano quella che sembra la miglior soluzione possibile.

E la gestione delle collaborazioni, dove è importante mantenere il giusto equilibro di tensione e contraddittorio, senza che si trasformi in incompatiblità o ridondanza.

Se non ti trovi mai d’accordo con un collaboratore, e dopo varie versioni dell’opera non salta fuori niente di speciale, può darsi che non siate l’accoppiata giusta. Al tempo stesso, potrebbe esserci un cattivo allineamento anche se sei sempre d’accordo con un’altra persona. Non stiamo cercando qualcuno che la pensi come noi, lavori come noi e abbia i nostri stessi gusti. Se tu e un collaboratore siete d’accordo su tutto, uno di voi due potrebbe essere di troppo.

La copertina (la stessa anche nell’edizione italiana) e l’impaginazione del libro sono il frutto di una collaborazione con Paula Scher, che ne scrive così:

Rick ha un genuino interesse per il design grafico e lo comprende come una serie di scelte rispetto a una visione, non molto diverso da come viene prodotta la musica. In entrambe le arene, come in tutti gli atti creativi, le possibilità sono infinite.

Il design di questo libro è di Rick Rubin. Anche se spesso facevo raccomandazioni, non ho preso decisioni di design. Tutte le scelte erano di Rick. Principalmente, chiedeva opzioni. […] Eravamo dei facilitatori. Ho mostrato a Rick cosa era possibile e gli ho permesso di prendere decisioni informate.


Longitudine, di Dava Sobel

Longitudine
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Racconta la storia di come si è arrivati a risolvere il “problema della longitudine”.

Il parallelo di latitudine è relativamente facile da determinare poiché il parallelo zero, l’equatore, è fisso in natura. Il meridiano di longitudine no. Il meridiano zero di longitudine è un punto arbitrario, che la scienza ha deciso di posizionare a Greenwich. La difficoltà nel determinare la longitudine ha avuto gravi conseguenze in mare, portando a vari disastri navali.

Per risolvere il problema della longitudine, il Parlamento britannico approvò nel 1714 il Longitude Act, offrendo un premio di 20.000 sterline. Gli approcci alla risoluzione del problema erano sostanzialmente due: uno legato alle distanze lunari, l’altro agli orologi.

Per calcolare la longitudine bisogna sapere l'ora a bordo della nave e, nello stesso istante, quella del porto di partenza (o di un altro luogo di cui si conosca la longitudine).

Poiché la Terra impiega ventiquattro ore per completare un’intera rotazione di trecentosessanta gradi, un’ora equivale a un ventiquattresimo di giro, ovvero a quindici gradi. Quindi la differenza di un’ora tra la posizione della nave e il punto di partenza indica un avanzamento di quindici gradi di longitudine verso oriente o occidente.

All’epoca, però, gli orologi non erano precisi, in media sgarravano di un minuto al giorno. John Harrison, un falegname autodidatta, inventò un orologio senza pendolo, che non necessitava di olio, capace di mantenere l’ora esatta da un porto di origine a qualsiasi angolo remoto del mondo. Già i primi orologi di Harrison sgarravano al massimo di un secondo al mese.

Harrison ha sempre lavorato in autonomia, aiutato dal fratello e poi dal figlio. È sempre stato un perfezionista. Quando presentò la prima versione del suo orologio marino alla commissione del Longitude Act, anziché richiederne la prova, ne evidenziava solo i difetti e chiedeva il permesso di costruirne uno nuovo.

Fu l’unico in quella sala a criticare l’orologio marino, che nel viaggio dimostrativo a Lisbona e ritorno non aveva sgarrato più di qualche secondo in ventiquattro ore. Harrison disse che il congegno mostrava alcune imprecisioni che andavano eliminate; dichiarò che aveva bisogno di lavorare ancora un po’ sul meccanismo e che sarebbe riuscito a costruire una versione molto più piccola.

Dopo anni di numerose resistenze e difficoltà, il lavoro di Harrison fu finalmente riconosciuto, e vinse il premio. Harrison realizzò cinque versioni del suo orologio marino. L’ultima, l’H-5, fu completata quando aveva 79 anni. Già dopo il successo della versione precedente, molti orologiai iniziarono a dedicarsi alla costruzione di orologi simili.

Essendo l’Inghilterra una nazione marittima, si ebbe un vero e proprio boom industriale. In effetti, alcuni orologiai dei nostri tempi sostengono che il lavoro di Harrison ha favorito la conquista dei mari da parte dell’Inghilterra, e quindi contribuito alla creazione dell’Impero britannico – perché fu grazie al cronometro che le navi inglesi divennero le signore degli oceani.


Divertirsi da morire, di Neil Postman

Divertirsi da morire
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Il libro è del 1984, parla di come il mezzo televisivo abbia cambiato il modo in cui la società percepisce e discute di questioni importanti, passando da un dialogo informato e razionale a uno dominato dall’intrattenimento e dalla spettacolarizzazione.

Postman critica la tendenza (dell’epoca) a ridurre informazioni complesse in segmenti brevi e attraenti, compromettendo la capacità del pubblico di comprendere e riflettere su argomenti importanti.

La televisione americana è infatti un bello spettacolo, un piacere visivo, che ogni giorno scodella migliaia di immagini. La durata media di un’inquadratura in televisione è di 3 secondi e mezzo, cosicché l’occhio non riposa mai, ha sempre qualcosa di nuovo da vedere. Inoltre, la televisione offre agli spettatori una gran varietà di soggetti, richiede delle capacità minime di comprensione, e concede ampie gratificazioni emotive.

La tv ha solo amplificato un fenomeno cominciato con l’avvento del telegrafo, che ha dato rilevanza all’irrilevante, come scriveva Thoreau in Walden.

Il telegrafo, scrive, Postman, ha introdotto una forma di discorso pubblico con alcune caratteristiche specifiche: sensazionale, frammentario, impersonale.

Il telegrafo ha trasformato l’informazione in una merce che può essere venduta e comperata indipendentemente dalla sua utilità reale.

Se sostituite “televisione” o “telegrafo” con “social media”, questo libro potrebbe essere stato scritto ieri. Le riflessioni di Postman valgono allora come oggi.

Potrebbe essere utile leggerlo prima o dopo Content.

[…] l’informazione, il contenuto, o, se preferite, la “materia” di quello che oggi si è soliti chiamare “le notizie del giorno” non esistevano – non potevano esistere – in un mondo in cui mancavano i mezzi per dar loro espressione. […] Le notizie del giorno sono un’invenzione della tecnica. Sono, ancor più precisamente, il prodotto del mezzo. Assistiamo a frammenti di ciò che accade in ogni parte del mondo, perché la molteplicità di mezzi di cui disponiamo sembra fatta apposta per trasmetterci informazioni frammentarie. […] Senza un mezzo adatto, le notizie del giorno non esistono.

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  1. Per i più giovani, si tratta di un famoso gruppo rock degli anni ’80 e ’90. 

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