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Un’intervista a Richard Turley
Una raccolta di estratti (e impressioni) da una lunga intervista a Richard Turley, pubblicata dalla rivista It’s Nice That
È possibile leggere l’intera intervista realizzata da Matt Alagiah, sul sito di It’s Nice That.
Richard Turley è un grafico inglese. Al momento è il global creative director dell’agenzia Wieden+Kennedy. Ha lavorato in più ambiti, in ruoli diversi. Ha cominciato lavorando al Guardian con Mark Porter, a cui deve tutto quello che sa: «mi ha insegnato come guardare un carattere tipografico, come usarlo, come guardare le immagini e come ritagliarle. Mi ha insegnato a pensare.» Si è trasferito in USA a lavorare presso un altro giornale, Bloomberg Businessweek. Un settimanale di economia che in quel periodo divenne molto popolare tra i grafici, per l’impaginazione e le sue irriverenti copertine. Ha poi lavorato per MTV con il titolo di senior vice president of visual storytelling. Nel 2017, alla Wieden+Kenney, ha curato il rebrand della Formula 1.
A Turley piace lavorare in una grande agenzia, ma qualsiasi lavoro realizzato per un cliente non riesce mai a soddisfarlo al 100%. Ha quindi continuamente bisogno di dedicarsi a progetti personali, e di lavorare con piccoli team. Il suo ultimo progetto personale è del 2019: la rivista Civilization.
Sul suo approccio al lavoro dice:
Il mio processo di lavoro è piuttosto veloce. Non mi è mai stato diagnosticato l’ADHD, ma sono abbastanza sicuro di averne una variante. Sono molto dispersivo e intuitivo — più che pensare un progetto lo sento. Non ho un modo specifico per affrontare un problema, se non molto rapidamente. Lavoro abbastanza incessantemente per arrivare alla soluzione e poi, una volta trovata, mi sento molto protettivo a riguardo. Quando ho trovato qualcosa che mi piace e che funziona, non sto a ripensarci troppo o spingerla oltre, mi limito ad assecondarla.
Nell’intervista si parla di piattaforme social e delle loro influenza sulla creatività. Turley è abbastanza critico riguardo i social network e li usa sempre meno, non ha più un account Instagram e Facebook. Ha un account Twitter e uno su Tumblr.
Guardare tutti le stesse cose, più che accrescere la creatività, crea omologazione. Sempre più spesso si sente la frase “Oh, non funzionerà per Instagram”: «abbiamo creato un mondo in cui esiste un software in cui possiamo semplicemente inserire un’immagine e poi ricevere un numero, e quel numero ci renderà felici o prenderà decisioni creative per noi. E ne siamo assolutamente bloccati.»
Secondo Turley la Silicon Valley e le piattaforme digitali hanno creato una versione di design di successo con la quale specchiarsi. Tutto assomiglia a Apple o AirBnB, un’identità dove tutti si sentono al sicuro e moderni.
C’è stato un momento in cui la grafica era tutta incasinata, poi è arrivato il modernismo a mettere tutto in ordine. Ora sembra ci sia di nuovo bisogno di rovinare tutto e rendere tutto disordinato:
Perché è proprio questa versione di “moderno” imbastardita — la pulizia, i sans-serif, il tanto spazio, facile, semplice e un po’ senza gioia, ma funzionale — è quello che ci interessa in questo momento. Ed è abbastanza fottutamente facile da fare. Ci sono molte agenzie di design e branding che sfornano sempre la stessa vecchia cosa in varie versioni.
A un certo punto dice: «I like work that just feels a bit wrong».
Turley è passato dalla grafica editoriale, alla tv, all’advertising. Tre ambiti diversi, ma che hanno similitudini nel processo creativo. Ogni volta ha dovuto ricominciare da capo per capire come funzionava quel settore e come risolvere problemi. Per descrivere le sue esperienze lavorative cita Tibor Kalman: «lo stato perfetto di felicità creativa è avere potere e non sapere nulla». Una frase del genere al giorno d’oggi potrebbe essere facilmente fraintesa, ma il senso è quello di avere il potere di prendere decisioni ed essere allo stesso tempo curiosi e aperti. Quella curiosità, apertura e attenzione che si ha quando si sta visitando per la prima volta un posto nuovo. Come scrive un altro noto grafico, Michael Bierut, nel suo libro How To: «your best chance to grow is to do something you don’t know how to do».