Lettura: 7 min • Graphic Design

Un’intervista a Milton Glaser

Un estratto di un’intervista del 2003 di Chip Kidd a Milton Glaser

(Quest’articolo è stato originariamente pubblicato nel numero 50 della newsletter Dispenser.Design)

Sistemando un po’ di libri sono finito su una vecchia raccolta dedicata alla rivista letteraria Beliver, tradotta e pubblicata in Italia nel 2007 dalla fu casa editrice ISBN. Beliver è stata fondata, tra gli altri, dallo scrittore Dave Eggers e dalla scrittrice Vendela Vida (marito e moglie). Fino al 2015 è stata pubblicata dalla casa editrice indipendente McSweeney’s di Dave Eggers, che, da ex grafico, ha anche progettato uno dei primi layout.

All’interno di questa raccolta c’è un’intervista di Salman Rushdie a Terry Gilliam, una di Dave Eggers a David Foster Wallace e un’altra, sempre di Eggers a David Byrne, e c’è un’intervista del 2003 di Chip Kidd a Milton Galser.

Chip Kidd è una grafico americano noto soprattutto per il suo lavoro di progettazione di copertine di libri. Ne ha create tantissime, e di sicuro ne avete vista più di qualcuna. Una in particolare poi è diventata il logo di un noto film: Jurassic Park. Molto consigliato un suo intervento al TED.

Milton Glaser non credo abbia bisogno di troppe presentazioni. Ci ha lasciato un anno fa circa (il 26 Giugno, lo stesso giorno in cui è nato).

Chip Kidd inizia l’intervista così:

Se la grafica ha un sommo maestro, allora Milton Glaser è il suo Michelangelo. Il poster di Dylan con i capelli arcobaleno. Il copiatissimo «I ♥ NY». L’immagine della locandina Angels in America. La rivista New York. E chi più ne ha più ne metta.

Le prime domande di Kidd sono sul famoso marchio di New York, realizzato nella metà degli settanta (1976 per la precisione), per una campagna di rilancio del turismo in città, che stava vivendo un periodo difficile. All’epoca era improbabile che qualcuno scegliesse New York per fare anche una breve vacanza.

Glaser per quel marchio non prese nessun compenso, e neanche dopo. Il marchio fu registrato dalla città di New York, che ne detiene i diritti (e che oggi vale milioni di dollari1). A Glaser la cosa non infastidiva, «secondo me è giusto così. È bello fare lavori del genere, con cui senti di poter veramente cambiare le cose».

Quel logo ha ormai una strana caratteristica: sembra non sia stato disegnato da nessuno […] Sembra uno strano reperto storico. Non dà l’idea di essere qualcosa che è stato progettato. Sembra così… non so, inevitabile. E probabilmente tutte le cose migliori che uno fa sembrano inevitabili.

Glaser racconta un episodio quasi buffo. Un episodio accaduto dopo l’11 settembre 2001, quando rivisitò il suo marchio per una raccolta fondi, aggiungendo una macchia scura sul cuore, in basso a sinistra, e la scritta “more than ever”. Questa rivisitazione ebbe un enorme successo che portò a una strana telefonata di un funzionario dello Stato di New York che si occupava del marchio. Il funzionario gli chiese di togliere la macchia nera, per non violare un marchio registrato. La cosa si risolse poi senza problemi, anche perché, di nuovo, Glaser non avevo guadagnato nulla dall’operazione, tutti i soldi raccolti furono donati.

Glaser racconta degli anni precedenti alla fondazione dei Pushpin Studios del 1954. Racconta di non aver passato l’esame di ammissione alla Pratt (una scuola di arte e design), per ben due volte. In un secondo momento si iscrisse alla Cooper Union, vincendo una borsa di studio che lo portò poi a studiare per due anni all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove, tra le altre cose, seguì i corsi di incisione di Giorgio Morandi.

Verso la fine dell’intervista Chip Kidd e Milton Glaser parlano di computer e tecnologia, riporto per intero lo scambio, ricco di spunti interessanti:

Chip Kidd: Personalmente, tu usi un computer per disegnare i tuoi progetti?

Milton Glaser: Lo sto usando sempre più spesso, ma non lo tocco mai.

CK: Non lo tocchi mai.

MG: No, lo usano i miei assistenti. E trovo che sia uno strumento terribilmente distruttivo per chi è all’inizio della carriera. Ma per la gente sopra i quaranta, è ottimo.

CK: Davvero?

MG: Sì perché a quel punto ha un senso della forma che non è determinato dal computer. Cioè, quando arrivi ad avere il senso di quello che è la forma, di quello che è la struttura, di quello che è la linea e via dicendo, puoi tranquillamente usare il computer. Ma se lo usi troppo presto comincia a dominare la tua estetica. E ti ritrovi a dipendere dalle sue capacità, che è una cosa totalmente diversa dalla sfruttare le tue capacità.

CK: E allora sarai sconfortato, vedendo la situazione attuale delle scuole di design in questo paese.

MG: Be’, sì, non mi piace affatto. Tuttavia, quello che mi dà speranza è che sempre più spesso i miei studenti e altri giovani designer cominciano a capire che non possono usare il computer per qualunque cosa, e che non possono partire dal computer. Devono cominciare realizzando cose con le proprie mani, disegnandole, immaginandosele. Potrei fare una tirata lunghissima contro i computer, ma il problema sostanziale è che non ti danno la possibilità di sviluppare le idee. Tutto si chiarisce troppo presto. L’interazione tra uno schizzo e il cervello funziona così: tu fai un tentativo, il cervello lo corregge, tu ci ritorni sopra, il cervello lo corregge di nuovo. Una dialettica di questo genere nel computer manca completamente, perché appena ti viene un’idea, diventa chiara. Nelle soluzioni che propone il computer non c’è mai abbastanza indeterminatezza, quindi capisci tutto troppo presto, e il risultato è un’idea banale molto ben eseguita. Perché con questo sistema non c’è sviluppo creativo. Oddio, non è neanche del tutto vero, ma tipicamente succede così. Per come la vedo io, con il computer è difficile realizzare progetti sviluppandoli fino in fondo in maniera meditata. Certo, si possono ottenere risultati strabilianti, ma il contenuto è un’altra cosa.

Di come gli strumenti per realizzare la grafica incidano sull’estetica è ormai evidente a tutti, come è evidente il fatto che in giro, a qualsiasi latitudine, si producano le stesse cose. Questo approccio computer centrico ha anche generato uno strano luogo comune che vede il “grafico” come qualcuno di interessato solo alla parte estetica, mentre il “designer” è la persona interessata a risolvere un problema. In Pensieri sul design, un libro di più di 40 anni fa, Paul Rand parlava di come l’obiettivo del grafico fosse quello di studiare e osservare un problema. Il design, scrive, è quello che viene fuori da questo studio e osservazione.

Negli anni, dal web design siamo passati allo UX design, perché si diceva che primi fossero troppo interessati alla parte visuale e all’artefatto finale. Si è passati poi dallo UX design al service design, per lo stesso motivo: di nuovo i primi erano troppo interessati alla parte visuale2. I software e le fonti di ispirazione (i vari Dribbble, Behance, Instagram) più che accrescere la creatività hanno creato omologazione, e la necessità, spesso, di cominciare lontano da un computer.

Nella parte finale dell’intervista di Chip Kidd a Milton Glaser si parla di pensione, con Glaser che si dice spaventato dall’idea di dover smettere di lavorare, «la pensione mi spaventa più della morte».

L'idea di andare in pensione è desiderabile solo per chi detesta il lavoro che fa.


Di Milton Glaser, oltre ai suoi lavori, resta anche questo bellissimo discorso tenuto nel 2001 a una conferenza dell’AIGA: “Ten Things I Have Learned” (è disponibile anche in italiano tradotto da designplayground.it). E queste due citazioni:

A puzzle is better than an answer.
I move things around until they look right.

Come ricorda Simon Collison sul suo blog, due citazioni utili a confortarsi quando non si vede ancora una soluzione chiara, e a fidarsi del proprio istinto.

Se vi restano 15 minuti, vi consiglio un’altra intervista del 2015, da vedere su YouTube, realizzata da Bob Liuzzo.

Milton Glaser nel 2014, ritratto da Catalina Kulczar. loading:lazy
Milton Glaser nel 2014, ritratto da Catalina Kulczar