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Intervista con il grafico
La rivista Artribune ha intervistato alcuni dei protagonisti della grafica italiana
All’interno del numero 50 di Artribune (Giugno/Luglio 2019) — rivista dedicata all’arte e alla cultura contemporanea — ci sono una serie di interviste a grafici italiani, curate da Lorenzo Bruni:
La domanda da porsi è: di cosa parliamo quando parliamo di graphic design? Il graphic design, pragmaticamente, è tutto ciò che ci circonda in una società moderna: dai packaging dei succhi di frutta al manifesto per la pace, dalla segnaletica stradale alla grafica di una collana editoriale; si tratta di codici visivi che permettono di semplificare da una parte l’accesso al mercato, dall’altro la realtà collettiva. Però, da qualche anno, anche questa definizione non è più esauriente, poiché presuppone ancora una società divisa in maniera netta tra consumatori e produttori. Adesso siamo tutti produttori di opinioni, servizi, visioni, desideri, ma anche di start up e partiti politici. Realizziamo quotidianamente sui nostri dispositivi digitali le stesse scelte — alterazione della foto e della font, creazione di lettere e supporti, definizione del rapporto fra testo e immagine — che fino a vent’anni fa potevano permettersi solo dei professionisti.
Artribune ha pubblicato le interviste anche sul proprio sito. Ho raccolto qui i link: Francesco Valtolina, Leonardo Sonnoli, Riccardo Falcinelli, Silvia Sfligiotti, Roberto Maria Clemente, Jonathan Pierrini.
Tutte le interviste sono ricche di spunti, anche se forse manca un rappresentate della “grafica di interfacce”.
Annoto sotto un estratto dell’intervista di Falcinelli che parla del “tono” con cui si raccontano le cose, dal punto di vista grafico.
Oggi viviamo in un mondo in cui siamo sommersi di merci, di discorsi e di immagini. La cosa fondamentale per far parlare questi progetti è individuare il tono giusto. Che cosa è il tono? È quella cosa che trovi alla Feltrinelli o all’autogrill e, a colpo d’occhio, senza concettualizzare, capisci che è un thriller. L’esempio che ho fatto è semplice ma può essere più sofisticato. Ovvero posso individuare il tono che distingue un classico della filosofia da un pamphlet contemporaneo. Devo creare un dialogo tra quello che si chiama immaginario collettivo, cioè quel deposito di immagini e pensieri che la gente ha in testa, e ciò che ti vuole dire il libro. Quindi la domanda di fondo è: chi c’è dall’altra parte? Poi c’è anche un gusto nazionale. Se ad esempio realizzo un romanzo in Italia o negli USA cambia completamente il tono anche della tipografia.
Annoto anche un estratto dell’intervista a Sonnoli, che parla di come è cambiato il suo rapporto tra la gabbia e il font:
Quando ho iniziato a lavorare, precedentemente al digitale, la gabbia era molto importante nella progettazione, era lo schema fondamentale che permetteva poi di tradurre il contenuto. Io mi sono subito appassionato alla costruzione di gabbie, mi affascinava anche il rapporto matematico con il foglio. Addirittura certe volte creavo delle gabbie assolutamente astratte rispetto al contenuto, oppure a volte avevano a che fare con il contenuto ma erano quasi delle forzature. Oggi, invece, probabilmente anche per il digitale, inizio lavorando senza la gabbia. Lavoro sui contenuti mettendo le cose in pagina per capire quali sono i problemi e cosa mi conviene fare, che tipo di bordi tenere, che tipo di spazio usare ecc. Quando capisco tutto questo un po’ meglio, allora realizzo lo schema di impaginazione. Lavoro quasi al contrario, adesso.