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Fa’ quello che ami. Ama quello che fai
Sul numero 1042 di Internazionale del 14 Marzo c’è un articolo di Miya Tokumitsu dal titolo Il lavoro che ami è una trappola, apparso sul magazine Jacobin con il titolo In the Name of Love, che affronta la questione della retorica basata sul Fa’ quello che ami. Ama quello che fai associata al lavoro.
Sembra proprio che “fa’ quello che ami” sia diventato lo slogan ufficiale dei nostri tempi, quando si parla di lavoro. Il problema è che non porta alla salvezza ma alla svalutazione di quello stesso lavoro che dice di elevare, e soprattutto alla disumanizzazione della gran parte dei lavoratori […] Secondo questa scuola di pensiero, il lavoro non è qualcosa che si fa per un compenso, ma un atto d’amore verso se stessi: se il profitto manca, è perché il lavoratore non ci ha messo abbastanza passione.
Tokumitsu cita, criticando, il discorso di Steve Jobs, l’inno a una vita concertata solo su noi stessi.
“Fa’ quello che ami” è una frase che può suonare innocua
e delicata, ma in ultima analisi è egocentrica al limite del narcisismo […] Incoraggiandoci a restare concentrati su noi stessi e sulla nostra felicità individuale, lo slogan ci distrae dalle condizioni di lavoro degli altri, e al tempo stesso conferma le nostre scelte, sollevandoci da qualsiasi responsabilità nei confronti di tutti quelli che lavorano anche senza amare quello che fanno […] Secondo questa scuola di pensiero, il lavoro non è qualcosa che si fa per un compenso, ma un atto d’amore verso se stessi: se il profitto manca, è perché il lavoratore non ci ha messo abbastanza passione. Il suo vero obiettivo è convincerci che lavoriamo per noi stessi, e non per il mercato.
Tokumitsu non vuole fare passare l'idea che lavoro deve essere per forza fatica, anzi. Svuotando però il lavoro di qualsiasi connotato e dandogli solo il significato di gioco o e di piacere si ottiene il contrario e il lavoro diventa una trappola:
Nessuno vuole sostenere che il lavoro non possa essere piacevole. Ma il lavoro emotivamente gratificante è pur sempre lavoro, e riconoscerlo non danneggia nessuno. Non riconoscerlo, invece, apre la strada al più feroce sfruttamento e danneggia tutti i lavoratori. Paradossalmente, il culto del “fa’ quello che ami” rafforza lo sfruttamento anche nell’ambito delle cosiddette professioni piacevoli, in cui gli straordinari e il lavoro sottopagato o gratuito sono la nuova norma: giornalisti a cui si chiede di fare anche il lavoro dei fotografi che sono stati licenziati, passare il fine settimana su Twitter, controllare l’email del lavoro nei giorni di malattia. Niente facilita lo sfruttamento come convincere i lavoratori che stanno facendo una cosa che amano. Invece di costruire una nazione di lavoratori felici e realizzati, la nostra epoca ha visto l’ascesa del professore a contratto e dello stagista non retribuito: gente che viene persuasa a lavorare per pochi soldi o gratis, se non addirittura in perdita. (grassetti miei)
Questo post segue quello sul discorso di Neil Gaiman che incoraggiava i laureandi di Belle Arti di Philadelphia a osare, a fare errori, e a inseguire i propri sogni, perché se è vero che oggi, in teoria, possiamo fare tutto, diventare quello che vogliamo, scegliere tra mille possibilità, è anche vero che estremizzare questo concetto porta alle svalutazioni, a cui stiamo assistendo, dei lavori cosiddetti creativi.
Alcune questioni trattate nell’articolo di Tokumitsu si trovano anche ne La Tirannia della Scelta di Renata Salecl che parla di un'ideologia tardo capitalista dove la società ha scaricato tutte le scelte sull'individuo, di «una società in cui l’individuo non critica il sistema perché troppo impegnato a criticare se stesso». Tutto dipende solo da te, ma non è sempre così.